Postato il: 18-09-2012 @ 11:59 pm -- letto 2414 volte
Ogni tanto in questa comunita apparentemente stagnante in cui nulla si muoveva, succedeva che le prime avvisaglie di quello che sarebbe successo poi facessero capolino .
Mio padre che a modo suo era un innovatore, decise di comprare la cucina a gas.
Detta in questo modo fa sorridere, ma in un posto dove nessuno la possedeva era un evento pure quello, la voce si sparge, qualcuno mugugna a voce neanche tanto bassa; “ma chini s’ad a crei, non du manca nudda, non tenidi mancu acqua in sa mariga”
” (ma chi si crede di essere? Non gli manca niente, non ha neanche acqua nella brocca!)
Fatto stà che il giorno fatidico arriva; il villaggio era in un poggio e da li si aveva la visuale della strada per circa un kilometro da cui sarebbe arrivato il signor Pischedda con tutto l’armamentario, noi ragazzini in piena fregola ci sedemmo di vedetta, finalmente quando l’ansia si tagliava a fette, spuntò una bicicletta, quando fù sicuro che era proprio lui via di corsa ad avvisare a casa “è arribendi, è arribendi” (arriva arriva) .
Il signor Pischedda veniva da un piccolo paese a circa sei kilometri, ci mise un eternità ad arrivare con la sua bicicletta con due portabagagli, su quello anteriore c’era una lunga scatola di cartone, e su quello posteriore una bombola nera lucente, a questo punto anche il pubblico aumentò, tutto il vicinato si raduna a casa mia per vedere l’oggetto misterioso.
La scatola lunga conteneva la cucina; bianca, di acciaio smaltato a tre fuochi, mentre montava tutto il signor Pischedda spiegava le funzioni e si dilungò sopprattutto nelle raccomandazioni sulla pericolosità del gas, “non avvicinare la bombola al fuoco, non lasciare il latte incustodito, attenzione al tubo, serrare bene la valvola”, dopo queste reiterate raccomandazioni, più di un dubbio si leggeva sulla faccia degli astanti, tutti grandi e piccini presero coscienza che l’oggetto misterioso era anche molto pericoloso.
Finalmente arrivata l’ora della prima accensione, qualcuno guadagnò l’uscita, qualcun altro prudentemente si mise vicino alla porta, “non si scì’ mai”.
Con diligenza il sig Pischedda ripete l’ordine cronologico con cui si accendono i fornelli della cucina “aprire la bombola, accendere il fiammifero, aprire il rubinetto della cucina, eh… fatto”.
Al piccolo botto che fa il gas al momento dell’accensione ”Santa Barbara mia diciosa” “ Sant’Antoni miraculosu” gridarono le donne “ Lampu ti calidi”, “Sa giustizia t’abbruxidi” esclamarono gli uomini, sbiancando in faccia e guadagnando precipitosamente l’uscita.
Per lungo tempo durò il tormentone delle raccomandazioni di stare attenti alla bombola, ma un sensibile passo verso il progresso era stato fatto.
Con una certa frequenza cominciavano a passare nel villaggio venditori ambulanti con varie mercanzìe, piano piano sostituirono quelli che periodicamente offrivano più che altro i loro servigi.
Un potente raglio d’asino annunciava l’arrivo di “tziu Porcu” un omino anziano che veniva da un paesino distante vari chilometri con l’asino alla cavezza, con sul basto due grosse ceste di verdure e frutte varie prodotti del suo orto; altro asino ma stavolta con carretto quello de “Su solitariu”, pure lui venditore di frutta e verdura, era un siciliano anziano venuto da chissà dove, non si annunciava con il raglio dell’asino, ma con il suono del piffero di canna, di cui secondo i miei ricordi era un autentico virtuoso, il suo soppranome derivava infatti da; “suonatore di piffero” (Solittu)
Una due volte all’anno passava il ramaiolo con i suoi “cardaxius e sartainas” (calderoni di rame di varie misure per fare il formaggio), se non vendeva il nuovo, stagnava quelli vecchi.
Poi quello che faceva “scarteddus e cadinus” (cestini di vimini e canna) di tutte le misure, rivestiva damigiane e fiaschi con giunchi e stuoie, chi riparava sedie e all’occorrenza le faceva anche nuove, e “s’acconcia cossu” che riparava alla bell’è meglio piatti brocche e pentole di terracotta.
Certo con i canoni dell’igiene odierni; mangiare su un piatto fessurato e “ricucito” con dei punti di filo di ferro talvolta arruginito fa rabbrividire, ma siamo arrivati fin qui con un bagaglio di anticorpi tale, da scoraggiare qualsiasi microbo molesto volesse invadere il nostro organismo.
Quasi sempre questi “artigiani” erano nomadi senza fissa dimora che si arrangiavano in queste piccole attività, ricompensate con il pernottamento, una cena, scambio di qualche altro genere di conforto; (tabacco, uova, una gallina, un fiasco di vino ), e passavano oltre per ripassare a distanza di qualche mese, da notare che difficilmente al loro ritorno non trovassero qualcosa da fare, in quella comunità dove era prassi quotidiana il riciclo di tutto, anche di cose palesemente da buttare.
Passava un Desulese “Tziu Liori” con il cavallo stracarico di “turras e talleris, “paias de argiola e discuas po fai su casu” (mestoli e taglieri di legno, pale per ventilare i cereali nell’aia, e forme di legno per fare il formaggio) in “sa bertula” (una sacca di orbace con due grosse tasche laterali) portava castagne nocciole e “Pittiolus”(campanacci” quest’uomo era conosciuto credo in tutta la Sardegna, perche in seguito da adulto, parlando di queste cose, e in diversi luoghi dell’isola, tutti dicevano di conoscerlo.
A questa figura di mercanti desulesi, il grande poeta “Montanaru” ha dedicato una splendida poesìa.
Per chi ama gli affreschi che parlano del passato della nostra terra, non può esimersi dal leggere quel capolavoro.
Alla fine dell’inverno passava su “procaxiu” (il porcaro) con un gruppo più o meno numeroso di maiali, ovviamente li conduceva a piedi con l’ausilio di uno o due cani, arrivato al villaggio faceva il giro delle famiglie per chiedere se qualcuno avesse bisogno di un maiale per le provviste, e non andava via senza averne piazzato qualcuno, mio padre lo prendeva sempre, qualche volta anche due.
I maiali erano giovani maschi castrati, da tenere e ingrassare fino al momento del sacrificio, oppure scrofette gravide per allevare i suinetti “Is proceddus”; pietanza parecchio gradita da noi Sardi
Anche ai giorni nostri.
È curioso un particolare rito propiziatorio che accompagnava l’aquisto del maiale, affinche tutto andasse a buon fine, una volta scelto l’animale, si tagliava una fetta di pane e il proprietario (solo lui poteva farlo) pena la perdita del valore dello scongiuro, sputacchiava la fetta di pane e la dava in pasto al maiale.
Non è dato sapere se funzionasse o meno, ma il maiale notoriamente poco “schizzinoso” gradiva la pozione magica.
Commento: Comare, a bos amentades comare vi ricordate della nostra
de sa nostra pizzinnia? gioventù?
A su chi fistis e fia cosa eravamo e cosa facevamo
nessunu bi det torrare; nessuno vi vorrebbe tornare
eppuru de l’amentare eppure ricordare mi da conforto
paret chi nd’hapa cunfortu, e in quel tempo ormai morto
e in cussu tempus mortu si ferma la fantasia .
si firmat sa fantasia.
I tuoi racconti sono foto in bianco e nero di un tempo lontano che ha lasciato un indelebile segno nel cuore di chi lo ha vissuto .
P.S.hai fatto bene a ricordarmi Montanaru il carabiniere poeta .
Commento: Grazie Terry per il tuo Puntuale commento, che mi suggerisce una riflessione; che sia un luogo comune la presunta "locura" dei carabinieri??
Visto che i due maggiori poeti sardi..(secondo me) Montanaru appunto, e Peppinu Mereu di Tonara, siano stati entrambi carabinieri.
P.S..anche se poi si sono congedati anticipatamente ...in verità.
Commento: Si lo hai scritto che ti sei sposata un carabiniere...per la poesìa in famiglia ci sei tu; una compensazione...per le tante
qualità che avrebbe il tuo sposo